Il male e la morte non sono l'ultima parola.

Profondamente radicata nella tradizione popolare religiosa, la Domenica delle Palme, a Gangi, segna l’inizio delle celebrazioni della Settimana Santa.
Una delle sue caratteristiche è l’immutata ripetitività di antiche gesta, di cui sono protagoniste le Confraternite del luogo...

Scalea, Cosenza
il 9 aprile 2006

Il 9 aprile 2006 a Scalea, importante centro del cosentino, la primaverile festa cristiana della domenica delle Palme, che ricorda l'ingresso di Gesù a Gerusalemme, è arricchita dall'apporto dei pescatori locali: questi ultimi, infatti, recano in processione, appesi ai loro grandi rami di ulivo (simboli della giornata), le primizie della stagione, ovvero i pesci che hanno appena catturato. Al termine della processione, il ricco raccolto è distribuito alla folla presente. Scalea è uno dei paesi più antichi dell'alto Tirreno Cosentino, è il tipico borgo medioevale costiero predisposto per la difesa dalle incursioni. Il paese è sorto durante le lotte tra Longobardi e Bizantini, per il dominio della zona, prima del sec.IX. Scalea, come luogo di villeggiatura fu scoperto dai romani. Lo documentano i numerosi ruderi delle ville romane di epoca imperiale sparsi nella piana e sulle prime alture. I romani costruirono queste ville nei posti più panoramici. Scalea, erede della greca Laos e della romana Lavinium, diventa centro importante in epoca normanna. E tale rimane anche in epoche d'influenza angioina, aragonese, spagnola e francese. Scalea come tutti i paesi d'Italia ha il suo dialetto; un dialetto più vicino a quello campano che non a quello calabrese.
 

 

 Da "Osanna" a "Crucifige"
mons. Vincenzo Paglia
Domenica delle Palme (Anno B) (09/04/2006)
Vangelo: Mc 14,1- 15,47 (forma breve: Mc 15,1-39)
Con la celebrazione delle palme si apre la grande e santa settimana della passione, morte e risurrezione del Signore. Non è solo un momento importante dell'anno liturgico, è la sorgente delle altre celebrazioni dell'anno. Tutte, infatti, si riferiscono al mistero della Pasqua da cui scaturisce la salvezza nostra e del mondo. Dal mercoledì delle ceneri la Parola del Signore, come in uno spirituale pellegrinaggio, ci ha preso per mano e ci ha accompagnato perché fossimo pronti ad accogliere il Triduo Santo. Nei giorni prossimi la Parola di Dio intensificherà la sua presenza in mezzo a noi perché i nostri occhi non si stacchino da Gesù. Sì, dobbiamo tener fissi i nostri occhi su Gesù che accetta anche la morte, pur di salvarci. Incontreremo i suoi occhi, affranti dal dolore ma sempre pieni di misericordia e di affetto, e li vedremo guardarci come guardarono Pietro che pure lo aveva tradito; e sentiremo nel profondo del nostro cuore un nodo di dolore e di tenerezza assieme. Possa ognuno di noi, in questi giorni, avere il dono delle lacrime come l'ebbe il primo degli apostoli quella sera del tradimento, affinché anche noi ci accostiamo nuovamente al Signore e iniziamo a seguirlo con un cuore nuovo.

Questi santi giorni si aprono con la memoria dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme. Il viaggio, iniziato dalla Galilea, sta per concludersi. L'ultima tappa è Betfage-Betania, sul monte degli Ulivi, come scrive il Vangelo di Marco (11, 1-10). Gesù manda avanti due discepoli perché procurino per lui una cavalcatura. Vuole entrare in Gerusalemme come mai aveva fatto prima. Fino a quel momento, infatti, si era tenuto come nascosto. Ora voleva entrare nella città santa e nel Tempio rivelando con chiarezza la sua missione di vero pastore d'Israele, anche se questo – e Gesù lo sapeva bene – lo avrebbe portato alla morte. Era il momento decisivo per la sua missione e per la sua stessa vita. Gesù non entra, però, su un carro come farebbe il capo di un esercito di liberazione, ma su un asino. Scrive il profeta Zaccaria: "Esulta, figlia di Sion! Fa sentire il tuo osanna, figlia di Gerusalemme! Ecco il tuo sovrano viene a te, umile, cavalcando un asinello, seduto su un puledro d'asina"(9, 9).

Gesù appare quindi come re, come il salvatore inviato da Dio per la liberazione del suo popolo. La gente sembra intuirlo, tanto che gli corre incontro per fargli festa: tutti stendono i mantelli al suo passaggio e agitano verdi rami di ulivo cantando: "Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore". È il canto di gioia che esprimiamo anche noi in ogni santa Liturgia assieme agli angeli mentre entriamo nel memoriale della cena del Signore. È la gioia che prende i discepoli e la folla ogni volta che il Signore si fa presente. È la stessa gioia che ebbe quella donna di Betania mentre era prostrata ai piedi di Gesù. È una gioia eccessiva? Qualcuno potrebbe pensarlo. I farisei, indispettiti da quella festa, chiedono a Gesù di far tacere i discepoli. Ma Gesù benedice la gioia di coloro che lo accolgono: "Vi dico che, se questi tacessero, griderebbero le pietre".

Gesù entra nelle città di questo nostro mondo mentre la vita degli uomini è tragicamente segnata da conflitti di ogni genere. Abbiamo bisogno di un liberatore. Gesù è il solo che può liberare gli uomini dalla guerra, dalla violenza, dall'ingiustizia. Il suo volto non è quello di un potente o di un forte, bensì di un mite ed umile di cuore che non è venuto a salvare se stesso ma gli altri. E ha fatto di questo lo scopo della sua vita. Passano pochi giorni da quell'ingresso trionfale in Gerusalemme e subito diviene il crocifisso, il vinto. È il paradosso di questa domenica delle Palme che fa vivere assieme il trionfo e la passione di Gesù.

La Liturgia, con la narrazione del Vangelo della passione proclamato dopo il Vangelo dell'ingresso in Gerusalemme, mostra il volto di Gesù che diviene crocifisso. Gesù è re, ma l'unica corona che nelle prossime ore gli viene posta sul capo è quella di spine, l'unico scettro è una canna e l'unica divisa è un manto scarlatto da burla. I rami di ulivo che in questa domenica sono il segno della festa, fra qualche giorno, nell'orto del Getsemani, lo vedranno sudare sangue per l'angoscia della morte. Gesù non fugge da Gerusalemme, accetta la croce e la porta sino al Golgota, ove viene crocifisso. Tutto sembra finito per lui: non può più né parlare né guarire. Quella morte, agli occhi dei più, sembrò una sconfitta. In realtà era una vittoria: era la logica conclusione di una vita spesa per il Signore, per il Vangelo, per i discepoli, per i poveri.

Davvero solo Dio poteva vivere e morire in quel modo, ossia dimenticando se stesso per donarsi totalmente agli altri. E se ne accorse un militare pagano. L'evangelista Marco scrive: "Il centurione, vistolo spirare in quel modo, disse: Veramente quest'uomo era il Figlio di Dio!". E Dio, Padre buono, risuscitò il suo Figlio. Non permise alla morte di vincere. La vittoria dell'amore di Dio sulla morte continua a guidare ancora oggi quel piccolo corteo di discepoli che si raccolgono sotto le tante croci di oggi e avvolgono i corpi crocifissi con il lenzuolo della misericordia e dell'amore. Il male e la morte non sono l'ultima parola. I discepoli di Gesù continuano ad amare i poveri, i vinti, i malati, i sofferenti, gli anziani, quelli che non hanno nulla da dare in cambio, perché l'amore vince il male e la morte.


Tutti i commenti

 

 L'ingresso trionfale di Gesu' a Gerusalemme
Monaci Benedettini Silvestrini
Domenica delle Palme (Anno B) (09/04/2006)
Vangelo: Mc 14,1- 15,47 (forma breve: Mc 15,1-39)
Il racconto della passione domina la liturgia della parola. Il lettore che segue Gesù, nel contesto della celebrazione liturgica, è condotto a percorrere lo stesso itinerario dalla morte alla vita, dalla passione alla gloria. I due aspetti insieme, formano la pasqua di Gesù, ma formano anche la nostra pasqua, la pasqua di tutti noi credenti. Istintivamente saremo presi dalla voglia di scavalcare la sofferenza e la morte... Da Gesù apprendiamo però che la notte della sofferenza si combina sul pentagramma della passione modulando la sinfonia dell'amore, perché il senso della vita è quello di spenderla per gli altri. Egli garantisce che il bene annienta il male e che la vita vince la morte. Non è dunque un caso che "pasqua fiorita" sia uno dei tanti nomi che qualificano la festa odierna. Non c'è che un amico per tutti, Cristo. Tutti noi abbiamo bisogno di questo amico che non tradisce, che capisce il dolore dell'uomo e dà una speranza perfino alla morte. Guardando a Cristo, noi cristiani non abbiamo creato il culto della personalità: di lui, non abbiamo fatto un mito. Non ci inchiniamo davanti a un uomo, ma davanti al figlio di Dio che ha preso carne nel cuore della Vergine Maria. Niente e nessuno potrà cancellare la presenza di Cristo: neanche l'indegnità dei cristiani, poiché egli è entrato nel cuore dell'umanità senza chiedere nulla, neanche un atto di amore.

 

 Commento Marco 14,1- 15,47 (forma breve: Marco 15,1-39)
mons. Ilvo Corniglia
Domenica delle Palme (Anno B) (09/04/2006)
Vangelo: Mc 14,1- 15,47 (forma breve: Mc 15,1-39)
La liturgia di oggi ci presenta due grandi scene: la prima di gioia, l'altra di dolore.
Prima scena: l'ingresso di Gesù in Gerusalemme, acclamato come re da una folla entusiasta (Mc 11, 1-10). I cristiani oggi, con la medesima esultanza, si stringono al loro Signore, ormai vivo per sempre in mezzo a loro. Gesù entra nella Città Santa per affrontare la sua passione. Tale ingresso, però, è un annuncio della vittoria strabiliante che Egli riporterà sulla morte. I fedeli si associano a Lui e rivivranno in questi giorni il suo dramma, con lo sguardo orientato verso il traguardo della risurrezione. Il ramoscello di palma o di olivo - che portiamo a casa o regaliamo a qualcuno- non è un portafortuna, ma un segno-ricordo dell'esperienza di fede in Gesù che oggi abbiamo fatto e un richiamo a restargli fedeli.
Seconda grande scena: il racconto della passione del Signore secondo Marco. L'evangelista ha ricevuto questa storia da testimoni oculari - in primo luogo da Pietro, di cui era discepolo -, da persone ormai certe che il Crocifisso era risorto, lo avevano incontrato, e consideravano la tragedia finale della sua vita un immenso tesoro da non dimenticare.
E' un dono, e anche un grande atto di saggezza, sostare in ascolto e in contemplazione davanti alla Passione del Signore. Marco, in modo molto visualizzato, ce la fa scorrere davanti agli occhi nella successione delle sue tragiche sequenze. Il cuore si riempirà di gratitudine.
Focalizziamo l'attenzione su due momenti estremamente significativi, che si corrispondono: la preghiera di Gesù nell'orto degli Ulivi e il suo grido desolato sulla croce.
- Marco descrive anzitutto la "passione interiore" di Gesù. Schiacciato dall'angoscia e da una tristezza mortale, Egli la confida al Padre nel suo dialogo solitario con Lui, mentre i discepoli dormono: "Abbà, Padre! Tutto è possibile a Te...". In questa preghiera Gesù manifesta la consapevolezza del proprio rapporto filiale con Dio: "Abbà" (= papà, babbo). Nei Vangeli questo termine si trova solo in Marco. Se Dio è suo Padre e può tutto, perché non lo sottrae alla prova? Ma immediatamente scatta la fiducia rinnovata e l'abbandono senza riserve: "Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi Tu!". Nella preghiera Gesù trova la forza per superare la tentazione, rimanendo fedele a Dio e accettando la Passione. Nella preghiera Gesù viene come trasformato: rinuncia alla sua volontà per abbracciare, in una resa incondizionata, la volontà del Padre. Si rivela, così, veramente "Figlio di Dio", a Lui perfettamente unito nell'amore. Anche a me Gesù chiede di ripetere con Lui al Padre, in ogni circostanza fosse pure drammatica: "ciò che tu vuoi anch'io lo voglio!".
L'agonia di Gesù continua nella storia della Chiesa, nella storia dell'umanità sofferente, nella storia di milioni di uomini terribilmente provati nel corpo e nello spirito. In ciascuno di essi Gesù - il quale "agonizza sino alla fine del mondo" (Pascal)- continua a implorare la nostra attenzione, continua a ripeterci nel tentativo di scuoterci dal sonno: "Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un'ora sola?". E' difficile cancellare dal nostro animo la scena di Gesù che, in preda a indicibile angoscia, va mendicando un po' di compagnia per la sua solitudine. E gli amici gli hanno negato la loro presenza vigile e amorevole. Gli amici non lo hanno capito. Non hanno capito il dramma che Egli viveva. Gli amici dormivano. Quante volte Gesù ci passa accanto implorando un gesto di attenzione, di solidarietà, di amicizia!...E' un nostro fratello povero, bisognoso soprattutto di affetto...E' sempre Lui, Gesù, e noi...restiamo insensibili, continuiamo a dormire?
"Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Queste parole, le uniche che Marco -seguito da Matteo- pone sulle labbra di Gesù morente, esprimono una desolazione estrema: l'isolamento di Gesù è totale, la sua solitudine è senza misura. Anche il Padre tace e pare abbandonarlo completamente, ritirando la sua presenza. Gesù rivive il dramma spirituale dell'uomo giusto, oppresso, di cui Dio sembra non ricordarsi, perché non lo protegge (cfr. Sal. 22 etc.).
Un motivo, poi, di particolare sofferenza per Gesù sta nel fatto che la sua "causa" è la "causa" di tutti i poveri a cui si è legato, i quali perdendo Lui perdono la speranza di risolvere la loro situazione. Dio non
interviene e sembra, così, smentire, anzi condannare tutto l'impegno di Gesù per i poveri, mostrando che la sua approvazione va ai capi del popolo che lo hanno mandato a morte.
Di più, Gesù vive il dramma unico del "figlio" che si sente abbandonato da colui che egli considerava e chiamava il suo "Abba" (=papà): la sua morte, allora, è vista come la rovina e il fallimento della "causa" stessa di Dio. Ma, più profondamente ancora, la ragione ultima espressa nel grido di Gesù dovremmo ricercarla nella sua scelta di spingere la sua solidarietà con gli uomini peccatori fino alle estreme conseguenze. Fino al punto, cioè, di sperimentare, di assaporare l'abisso della lontananza da Dio in cui si trovano gli uomini che sono preda del peccato. Durante l'esistenza terrena essi forse non avvertono, a un livello di coscienza riflessa, questo mostruoso stato di separazione da Dio e quindi di morte. Lui, Gesù, lo ha condiviso e vissuto con tragica lucidità, trasformandolo però in amore. "Mentre si identifica col nostro peccato, "abbandonato" dal Padre, Egli "si abbandona" nelle mani del Padre" (NMI 26). Così Gesù, gridando sulla croce, fa suo il grido di tutti i poveri, sofferenti, oppressi della storia. Fa suo il grido dell'umanità
infelice e lo lancia verso Dio. Non un grido di disperazione, ma di sconfinata fiducia. "Il grido di Gesù sulla croce...non tradisce l'angoscia di un disperato, ma la preghiera del Figlio che offre la sua vita al Padre nell'amore, per la salvezza di tutti" (NMI 26).
Gesù in croce appare come il Povero per eccellenza, il quale riassume in sé tutto il dolore che, dall'ingresso del peccato nel mondo, ha travagliato l'umanità. Sulla croce c'è il Dolore: ecco perché ogni uomo che soffre richiama quasi naturalmente il Crocifisso. Ma - ed è paradossalmente l'altra faccia della stessa realtà - sulla croce c'è l'Amore.
"Non i chiodi tennero Gesù sulla croce, ma l'amore" (Santa Caterina da Siena).
"Se gli angeli potessero invidiare gli uomini, lo farebbero per due motivi: primo, perché Dio ha patito per loro; secondo, perché gli uomini possono patire per Dio" (San Francesco di Sales). Potremmo precisare: "patire col Figlio di Dio". Non soltanto riconoscere il suo "volto dolente" in ogni uomo che soffre. Ma, ogni volta che tu soffri, puoi scoprire accanto a te il Crocifisso che ti chiama: Soffri con me, stringiti a me, unisci la tua pena alla mia. Lascia che io ti associ al mio dolore e possa soffrire in te e con te. Così la tua sofferenza acquisterà l'efficacia redentiva della mia passione.
Il Padre risponderà al grido del Figlio con la risurrezione. L'evangelista però ne scorge già la luce come anticipata in due segni, che sembrano poca cosa, ma hanno un significato profondo: "Il velo del tempio si squarciò in due". Il vecchio tempio di Gerusalemme cederà il posto a un tempio nuovo (= Gesù risorto), aperto anche ai pagani, la cui fede è anticipata dalla confessione del centurione romano: "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio". Come è arrivato a tale scoperta? "Vistolo spirare in quel modo". Cioè ha visto Gesù soffrire con tale amore, da intuire che soltanto il Figlio di Dio può soffrire in questo modo, soltanto Dio è capace di un amore così incredibile.
Per Marco qui c'è il culmine del cammino di fede: riconoscere nel fallito che pende dalla croce la realtà di Dio che traspare come Amore. "Il limite del potere del male, la potenza che in definitiva lo vince è la sofferenza di Dio, la sofferenza del Figlio di Dio...Certo, noi dobbiamo fare di tutto per attenuare la sofferenza e impedire l'ingiustizia che provoca la sofferenza degli innocenti. Tuttavia dobbiamo anche fare di tutto perché gli uomini possano scoprire il senso della sofferenza, per essere così in grado di accettare la propria sofferenza e unirla alla sofferenza di Cristo" (Benedetto XVI).

Lungo la settimana troverò il tempo per sostare ancora davanti alla tragica sequenza che il Vangelo oggi ci presenta, e in particolare davanti alle due scene sopra riportate. Contemplando, mi sentirò coinvolto e mi verrà da dire: tutto questo Gesù lo ha fatto per me, pensando a me! Lo ringrazierò. Gli chiederò anche che cosa si aspetta da me come risposta al suo amore.
"Ascolta chi è stato crocifisso, ascoltalo parlare al tuo cuore,
Ascoltalo, Lui che ti dice: Tu vali molto per me". (Giovanni Paolo II)

 


Commento Marco 14,1- 15,47 (forma breve: Marco 15,1-39)
Agenzia SIR
Domenica delle Palme (Anno B) (09/04/2006)
Vangelo: Mc 14,1- 15,47 (forma breve: Mc 15,1-39)
Prima di Pasqua è forse questa la domenica più festosa e partecipata. Vengono a Messa anche non pochi genitori, che accompagnano i loro figli con i rami di palma o di ulivo, i simboli apparentemente contradditori del martirio e della pace.

Pochi giorni prima della sua passione, Gesù entra trionfalmente in Gerusalemme: "La folla era venuta per la festa, udito che Gesù veniva, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui, gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele". Luca redattore di questo brano, aggiunge una sua rievocazione profetica che dice: "Non temere figlia di Sion. Ecco il tuo re viene, seduto sopra un puledro". Ora si attua quella profezia. Con Gesù è venuto tra i suoi il vero re d'Israele.

Anche i discepoli lo comprenderanno molto dopo, quando davvero vedranno manifestarsi la gloria del Risorto. Per il momento non dovranno lasciarsi ingannare dall'effimero entusiasmo di quella folla, la stessa che non tarderà a gridare contro Gesù la sentenza di morte: "Crocifiggilo". Questo repentino cambiamento è sempre stato portato a esempio di quanto siano cangianti e volubili gli umori della gente, che spesso si lascia influenzare da chi grida più forte, senza ragionare con la propria testa.

Prima di affrontare la passione e la morte, Gesù anticipa la cena con i suoi discepoli. Dopo prese il pane il vino per trasformarli nel suo corpo e nel suo sangue. I cristiani conoscono questi gesti che il sacerdote ripete nella Messa, obbedendo al comando del Signore: "Fate questo, in memoria di me". È quanto di più grande Gesù abbia lasciato ai suoi, il suo corpo e il suo sangue, tutto se stesso presente nel sacrificio eucaristico.

È per noi il sacrificio e la cena del Signore, il mistero della fede, poiché noi crediamo nella sua presenza. Ogni volta che mangiamo questo pane e beviamo a questo calice, come ci ricorda San Paolo, noi diventiamo una sola cosa con Cristo. Le membra si uniscono al loro capo, non siamo più disgregati e dispersi, ma formiamo un solo corpo. Gesù si è veramente consegnato a noi e ci ha donato tutto se stesso.

Attraverso vari passaggi, Luca, nel suo Vangelo, vuole accompagnarci, passo passo, a riconoscere in Gesù il Figlio di Dio. Si serve dei miracoli, delle parole e degli incontri di Gesù con la folla. Ma soprattutto riporta la testimonianza di chi ha visto la morte di croce. Quando Gesù, dando un forte grido, spirò, "il velo del tempio si squarciò in due, dall'alto in basso, Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo disse: "Veramente questo uomo era figlio di Dio!". Un'autentica professione di fede, da parte di un pagano "che lo aveva visto spirare in quel modo".

Quale modo? Certamente l'abbandono di Gesù alla volontà del Padre, senza un moto di protesta o di ribellione. Certamente l'esempio di un innocente che accetta di subire la violenza e l'ingiustizia. Un agnello, aveva detto Isaia, che va al macello senza lamento. È in fatti la croce il fondamento della nostra fede, con la conseguente risurrezione. Gesù, passato dalla morte alla vita, è il segno della nostra speranza.